Il Presidente Confesercenti: “Tagli alla spesa unica manovra possibile, Italia ce la può fare”
“Anche quest’anno, purtroppo, l’Italia è in recessione. La crescita, ancora una volta, è rimandata al prossimo anno. E non sarà entusiasmante: le nostre previsioni per il 2015 la inchiodano sotto il punto percentuale, allo 0,9%. Così, sarà ancora più difficile il raggiungimento degli obiettivi di bilancio dello Stato: vogliamo dire forte e chiaro che l’ulteriore buco non può essere coperto da nuove tasse. In questo momento più che mai le nostre imprese hanno bisogno di risorse da investire per innovare e per essere più competitive. Dal Governo sono arrivate a più riprese rassicurazioni che non ci sarà alcuna manovra fiscale correttiva. Lo speriamo davvero, perché il Paese è allo stremo: la pressione fiscale reale è al 55%, addirittura al 68% per le PMI. Un livello record, incompatibile con l’obiettivo di tornare a crescere”.
Con queste parole il presidente Confesercenti Marco Venturi ha aperto i lavori della tredicesima edizione del Meeting di Perugia. “Per questo dobbiamo agire, da subito, per ridurre la pretesa fiscale” – ha proseguito Venturi nella sua relazione. Le risorse necessarie per abbassare il peso del fisco – non ci stancheremo mai di ripeterlo – dobbiamo trovarle nella revisione della spesa pubblica, a partire dall’enorme quantità di sprechi presenti a tutti i livelli istituzionali e da una profonda semplificazione dello Stato. Noi non accetteremo più le spremiture che hanno messo in ginocchio imprese e famiglie. Non tollereremo più che nella nostra Italia si continui a bruciare enormi quantitativi di ricchezza.
I meccanismi della legge di stabilità prevedono che, se la spending review non funziona, occorrerà tagliare le agevolazioni fiscali. Un ‘automatismo’ che si traduce così: se la politica dice no ai tagli di spesa, bisognerà rifarsi su imprese e famiglie. E’ un errore inaccettabile. Il giusto decisionismo del Presidente del Consiglio sia applicato in primo luogo alla politica e alle istituzioni. Dobbiamo far sì che esse diventino un esempio di correttezza, efficienza e trasparenza, solo così vi sosterremo con convinzione. Sappiamo che il vostro compito non è affatto facile, ma vi suggeriamo, anche su questo, di ascoltare le parti sociali a cui non mancano volontà ed idee.
Confesercenti, negli ultimi 10 anni, ha presentato diversi rapporti sugli sprechi della spesa pubblica e sulla semplificazione dei livelli di rappresentanza istituzionale, sia territoriale, sia nazionale. Quei rapporti sono stati la prova che la resistenza al cambiamento non viene dalle parti sociali, ma dalla ‘casa’ della politica e dalle stesse istituzioni. Purtroppo e per troppo tempo la spesa pubblica in Italia è stata usata come strumento politico per creare consenso. In realtà, ha alimentato solo una pressione fiscale insostenibile, che continua a impoverire il paese. Una spirale kamikaze, che dobbiamo assolutamente spezzare.
L’attuale governo, di cui apprezziamo la forte volontà di rompere con le cattive pratiche del passato, ha previsto 20 miliardi di tagli alla spesa in tre anni. Noi auspichiamo che questi tagli si realizzino rapidamente ed interamente. Bisogna prendere atto che non possiamo più ripianare i bilanci aumentando ancora le tasse e che le uscite ‘aggredibili’ sono molte. La priorità è ridurre significativamente una spesa pubblica mostruosa, che non possiamo né vogliamo più permetterci.
Basta non avere la memoria corta e ricordarsi che è una spesa fatta anche di eccessi e sprechi, di assurdità ed abusi. Una spesa che ha padri e madri che si chiamano Stato, Regioni, Province, Comuni, Società Pubbliche. Non sono, certamente, mancati i complici: coloro che hanno goduto dei vari benefici. Non sono mancate, però, neanche le vittime di una tassazione folle e di un insieme di servizi troppo spesso scadenti. Famiglie e imprese hanno pagato il prezzo più alto.
Noi non vogliamo sindacare sulle scelte annunciate dal governo e finalizzate a ridurre una spesa pubblica ormai insostenibile. Anzi, le apprezziamo. Anche perché, senza un radicale ripensamento economico e funzionale dello Stato, la pretesa fiscale non potrà mai essere ridimensionata. Gli investimenti delle imprese resteranno al palo, i consumi delle famiglie freneranno ancora.
Lo Stato deve essere snello e più efficiente in tutte le sue articolazioni. Vogliamo conti pubblici a posto, vogliamo un fisco sostenibile ed adeguato a garantire il funzionamento del Paese, ma che non mette alle corde famiglie ed imprese.
A incominciare dal numero di adempimenti. Basti pensare al diluvio fiscale che si abbatterà da questo mese fino a dicembre 2014: una tempesta di 337 adempimenti, di cui 150 a settembre. Pensate che la nota dell’agenzia delle entrate che spiega gli adempimenti del solo settembre è un libro di 166 pagine che prevede 750 operazioni. Se mettessimo insieme le istruzioni delle più importanti dichiarazioni fiscali, arriveremmo ad avere un’enciclopedia di oltre 1.600 pagine. Un dato che ci fa capire il nostro è ancora un fisco troppo complicato, che avevamo già definito ‘lunare’.
Anche noi, come il Commissario Cottarelli, non siamo per i tagli lineari: il recente passato ci ha mostrato che non funzionano e che spesso possono essere addirittura controproducenti. E’ il caso delle forze dell’ordine: in questo campo dobbiamo tagliare gli sprechi, non le risorse necessarie a combattere con successo taglieggiamento, usura, rapine, truffe, abusivismo commerciale e ogni altra attività illegale e violenta.
Secondo le stime dell’Istat, alcune di queste attività illegali, come contrabbando, prostituzione e spaccio di stupefacenti, valgono oltre 15 miliardi. L’inserimento di queste voci nel calcolo del prodotto interno lordo ci dà un po’ di respiro, ma è essenziale fornire alle forze dell’ordine tutti gli strumenti per ridurre l’illegalità.
Nel commercio, in particolare, occorre continuare a combattere con forza le piaghe dell’abusivismo e della contraffazione. I venditori irregolari su suolo pubblico, secondo le stime della nostra Anva, sono oltre 50.000. Realizzano un giro d’affari da 5 miliardi di euro, erodendo i margini degli imprenditori in regola e senza pagare le tasse.
Meglio rivolgere l’attenzione ad altri sprechi ed inefficienze, che abbiamo già denunciato nei nostri rapporti sulla Pubblica Amministrazione e sulla sanità. Abbiamo inoltre chiesto l’abolizione delle Province e delle comunità montane, dei micro comuni e l’accorpamento delle società di servizi comunali. Eppure, l’eliminazione delle Province non è ancora terminata, così come sopravvivono ancora 132 comuni sotto i 150 abitanti. Di questi, 57 non arrivano nemmeno a cento cittadini.
Nei nostri rapporti mancava il superamento dell’attuale Senato. Non abbiamo osato, ma lo spirito di questa decisione del Governo è simile alla nostra idea di semplificare il sistema, di ridurre la spesa pubblica, di svecchiare l’attuale sistema istituzionale.
L’obiettivo è quello di far funzionare meglio il sistema Paese, di sprecare meno e ridurre il prelievo fiscale, di creare le condizioni per una governabilità stabile e coerente: stabile per poter attuare i programmi annunciati; coerente per non scadere nei compromessi di basso profilo che servono alla politica, ma non al Paese.
La riforma del Senato si inserisce in questa strategia di semplificazione “produttiva”: la sua trasformazione dovrebbe ridurre i costi e rendere più efficiente il sistema istituzionale e con esso tutto il Paese.
Il bicameralismo “perfetto”, infatti, ha causato un insostenibile ritardo nell’iter di approvazione delle leggi nel nostro Paese, che richiede fino ad un anno in più rispetto ai tempi medi dei restanti Paesi dell’Unione Europea.
Abbiamo bisogno, in questa prospettiva, anche di una riforma elettorale, che dia certezza di governo e di programma. All’Italia non serve la palude, né la testimonianza politica nelle Istituzioni. Quello di cui il Paese ha bisogno è una maggioranza che governi ed una forte opposizione che denunci e condizioni le scelte ritenute sbagliate e che sappia sostenere quelle utili.
E’ la partita dei tagli, però, che deve diventare la madre di tutte le battaglie. Un’azione che deve andare di pari passo con la riforma del fisco, che non può più essere rinviata e che deve incidere sia sull’imposizione nazionale, sia su quella locale.
La pretesa fiscale è cresciuta nel tempo fino a diventare un peso intollerabile, che ci spinge a rivendicare un tetto al prelievo.
Pretesa rischiosa, perché spinge le PMI alla chiusura, provocando danni ingenti per l’occupazione, per il servizio di vicinato, per la stessa crescita economica e sociale del nostro Paese.
Per questo serve uno sforzo in più: l’Italia ha bisogno di un nuovo Patto fiscale. Con il bonus Irpef c’è stato un primo giusto intervento a favore dei redditi dipendenti. Adesso tocca alle imprese: la proposta di Confesercenti è di operare un intervento sul lato fiscale, composto dall’estensione del bonus di 80€ ai lavoratori autonomi e ai pensionati entro i 25.000€ di reddito annuo e dal taglio di almeno due punti delle aliquote Irpef.
Un nostro rapporto Confesercenti Ref, indicava 50 miliardi di euro che possono arrivare da tagli coraggiosi della spesa pubblica, e che possono essere usati per raggiungere questo obiettivo.
Nel frattempo, sia chiaro, basta con altri aumenti di imposizione fiscale. Inoltre vi chiediamo di mettere in atto una lotta a tutto campo contro gli abusi, contro la corruzione e contro anacronistici privilegi che hanno frenato la crescita del nostro Paese.
La nostra non è una semplice richiesta, ma una proposta di scambio: da parte nostra ci impegniamo infatti a favorire nuovi investimenti e la creazione di nuova occupazione.
L’eccesso di fisco è l’emergenza economica nazionale, ma non è l’unico problema che si trovano a dover fronteggiare le nostre imprese.
I problemi della nostra economia vengono da lontano.
La crisi iniziata nel 2007 era stata preceduta da una fase di bassa crescita sin dalla seconda metà degli anni novanta. In questi anni, il nostro ritardo nei confronti delle economie più avanzate ha continuato ad ampliarsi.
Nel 1990, il Pil pro-capite italiano era il 74% di quello Usa. Ora siamo sotto il 65%. Si tratta di un ampliamento dei divari di dimensione clamorosa, che sta ponendo l’Italia sempre più ai margini dei processi di sviluppo globali.
Se non riusciremo ad interrompere questa tendenza, il nostro paese si ritroverà rapidamente ‘declassato’, ai margini dei processi internazionali di sviluppo.
Tra le ragioni dei nostri ritardi, c’è stata la mancata capacità di sfruttare le opportunità offerte dall’ondata tecnologica Ict.
Ma lo sviluppo è stato frenato anche da una pubblica amministrazione non adeguata alle sfide che un’economia moderna è chiamata a raccogliere.
A queste difficoltà ‘strutturali’ si aggiungono da alcuni anni i problemi di domanda nati a seguito della crisi del credito e degli sforzi di correzione fiscale messi in atto durante gli anni passati.
In tre anni, le tasse sono aumentate di 20 miliardi. La stangata ha avuto un effetto devastante sui bilanci delle famiglie: a fine 2014 ogni nucleo famigliare, in media, perderà 4.400 euro di reddito reale disponibile rispetto al 2007.
Nel solo biennio 2012-2014 la spesa per acquisti di beni delle famiglie italiane è calata di quasi 40 miliardi. Si tratta di un crollo senza precedenti.
Dobbiamo assolutamente accelerare l’inversione di tendenza: se il mercato interno non riparte, sarà difficile per il nostro Paese agganciare una ripresa economica reale e duratura. La crisi della domanda sta trascinando con sé le PMI.
Le conseguenze sul Pil e sull’occupazione sono state devastanti. Chi ha pagato di più per la durezza e per la lunghezza della crisi e per la conseguente caduta del potere d’acquisto sono gli anziani ed i giovani. Secondo le nostre analisi un pensionato “medio” perderà quest’anno 1.419 euro di potere d’acquisto rispetto al 2008. Risorse sottratte ai consumi e ai bilanci delle famiglie. Bilanci che sempre più spesso sono sostenuti proprio dai pensionati, diventati, durante la crisi, veri e propri pilastri del welfare familiare.
E i giovani non stanno meglio: i tassi di disoccupazione giovanile hanno raggiunto ormai livelli tali da allargare il problema dal piano strettamente economico a quello umano e sociale.
Se non invertiamo rapidamente questa tendenza, rischiamo di condannare un’intera generazione alla precarietà ed alla disoccupazione, con ripercussioni che si rifletteranno pesantemente, per alcuni decenni, sull’intero Paese.
Servono interventi per stimolare la domanda, accompagnati da sostegni per l’offerta. L’obiettivo di queste politiche deve essere anche quello di innescare aumenti di produttività, tali da fare crescere i redditi interni e al contempo migliorare la capacità competitiva, in modo da sfruttare al massimo le potenzialità legate allo sviluppo della domanda estera.
Ci sono anche comparti tradizionali che possono presentare ampi spazi di crescita. Fra questi è noto come l’Italia non stia sfruttando adeguatamente le potenzialità del turismo. Basti pensare al fatto che, sulla base della nostra dotazione in termini di patrimonio artistico a naturale, dovremmo essere largamente al primo posto per capacità di attrarre turisti dall’estero.
In particolare, nel corso degli anni passati non abbiamo intercettato adeguatamente la domanda turistica proveniente dai paesi emergenti, dove si sta creando un mercato potenziale di nuovi benestanti che acquisiscono un peso crescente nei flussi di turismo internazionale.
E come potrebbe essere altrimenti? Manca una promozione coordinata, mancano addirittura le infrastrutture. Ci sono territori difficilmente raggiungibili, ed abbiamo una rete di trasporti decisamente insufficienti.
E’ incredibile che, dopo tanti anni, il turismo non sia ancora ritenuto una leva per il nostro sviluppo. Il risultato è che il settore sta soffrendo. Quest’estate, in particolare, il bilancio è stato molto negativo: secondo le nostre stime, il fatturato delle attività ricettive e dei pubblici esercizi, tra giugno e agosto, è calato di 1,2 miliardi rispetto allo stesso periodo del 2013. Come se non bastasse, molti comuni hanno aumentato la tassa di soggiorno. Una strategia suicida. La tassa di soggiorno non è l’unico esempio. Dal 2011, nei nostri settori, si sono susseguiti interventi che hanno contribuito ad acuire la sofferenza delle PMI: Bolkestein, direttiva decoro, ordinanze anti-movida impossibili da seguire, liberalizzazioni selvagge degli orari e dei giorni di apertura delle attività commerciali.
Su quest’ultimo punto l’iniziativa di Confesercenti “Libera la domenica” sta aprendo enormi brecce, mettendo in crisi le certezze dei liberalizzatori ideologici e sta riportando la discussione ed il confronto su un terreno più concreto e meno ideologico/strumentale. Dopo l’Abruzzo e l’Umbria, adesso anche il Consiglio Regionale del Veneto è tra i promotori di un referendum sulle aperture festive degli esercizi commerciali. Speriamo che la normativa cambi al più presto e si ripristinino un po’ di regole: solo così sarà possibile per le imprese programmare investimenti, stipendi per i dipendenti, compensi i per collaboratori familiari e per lo stesso titolare. Senza limiti e senza certezze si favoriscono la crisi, la chiusura delle imprese, la crescita della disoccupazione, la retrocessione in serie B della nostra Italia.Per arrivare ad una vera ripresa, però, dobbiamo rimuovere anche gli altri ostacoli che frenano la nostra crescita. In particolare, è necessario finalizzare un intervento per frenare la disoccupazione.
Siamo d’accordo con il Governo quando sostiene che questa è la priorità . Ed è proprio questa priorità che ci spinge a sottolineare che il lavoro si crea e non si inventa, che sono le imprese, in particolare le PMI quelle che assicurano occupazione autonoma e dipendente. Vi chiediamo di prenderne atto e di tenere conto che solo se le nostre imprese saranno messe in condizioni di competere, di crescere e di svilupparsi potremo avere una piena ripresa dell’occupazione a beneficio non solo dei giovani, ma dell’intero Paese.
La Bce ha parlato chiaro: le Pmi italiane sono tra quelle che pagano di più il credito in Europa, anche se questo è sempre più esiguo. Una situazione insostenibile: il Governo e le banche agiscano subito per riattivare l’erogazione del credito e per ridurre i costi per le PMI. Come la BCE, anche la Banca d’Italia ha più volte sottolineato la necessità di far ripartire il credito alle imprese, trasformando le iniezioni di liquidità a favore del sistema bancario in sostegno all’economia reale. La Banca d’Italia ha dichiarato che sono disponibili 120 miliardi di euro per il credito. Un fiume di risorse che per le PMI diventa puntualmente un rivolo insignificante. Non basta limitarsi ad applaudire i moniti dei governatori: le banche devono fare tesoro delle loro sollecitazioni e devono aprire i cordoni della borsa per favorire gli investimenti e la crescita.
L’effetto della crisi del credito per le nostre piccole e medie imprese è stato devastante. Ha accelerato le chiusure, come possiamo constatare ogni giorno attraverso i nostri Confidi territoriali, ed ha anche dato nuovo impulso all’usura. Bisogna agire subito. Le banche devono fare la loro parte, e pure l’Esecutivo deve intervenire: chiediamo che si dia più sostegno ai Fondi di Garanzia, incrementandone la dotazione, per sbloccare al più presto i finanziamenti. Come sapete, è iniziato il semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell’Unione. Presidenza che cade in un momento particolare, perché la crisi ha avuto ed ha ancora una dimensione europea. I lunghi anni di recessione hanno parzialmente logorato la voglia d’Europa, perché vista come ispiratrice delle politiche di austerity.
Agli errori e ai limiti dell’azione europea, che certamente ci sono stati, non si può rispondere con un ritorno al passato. Sarebbe un drammatico passo indietro per l’Unione, per la nostra economia e una pesante sconfitta per tutti noi europei.
Dobbiamo, quindi, andare avanti con determinazione e con la convinzione che per raggiungere il nostro obiettivo bisogna avviare un profondo processo di riforma delle istituzioni e delle politiche comunitarie.
Proprio perché siamo profondamente e convintamente europeisti, chiediamo al Governo di cogliere l’occasione storica della nostra Presidenza dell’Unione. Un’opportunità per creare le condizioni per una svolta. Per questo vogliamo chiudere con un appello, per noi inedito, alle nostre istituzioni ed ai governi europei, nell’occasione propizia della riunione dell’Ecofin.
L’Italia deve porre con forza la necessità di passare dalle politiche di austerità e di rigore a quelle di sostegno alla crescita, facendo leva sulle PMI, che sono il motore dello sviluppo e dell’occupazione. Sarebbe un grave errore, infatti, sottovalutare il ruolo delle PMI italiane nell’economia europea. Con i loro 12 milioni di addetti, le nostre imprese superano l’occupazione creata dalle grandi imprese tedesche e danno vita a più posti di lavoro di quanti ne offrano le grandi imprese francesi e spagnole messe insieme. Persino l’OCSE ha certificato la qualità e la produttività delle PMI italiane.
C’è bisogno di una politica europea, coordinata tra tutti i Paesi e rivolta alla crescita economica dell’intera Unione. Dal 2007 ad oggi l’Italia ha perso l’8,5% del Pil, il 7,6% dei consumi e ben 3 milioni di persone sono rimaste senza posto di lavoro. Ci vorranno sei anni perché i consumi tornino ai livelli del 2007, sette anni per recuperare il prodotto interno lordo perduto e addirittura otto anni per riassorbire la disoccupazione.
Di fronte a noi, quindi, c’è un percorso difficile. Per rilanciare l’Italia, dobbiamo lavorare tutti insieme: Istituzioni, forze politiche, parti sociali, Regioni e Comuni. Non per perdere tempo intorno a un tavolo, ma per individuare interventi precisi di politica economica che consentano al nostro Paese di risolvere i nodi che ancora ci frenano e tornare, finalmente, a crescere. L’Italia ce la può fare. Noi ci crediamo e siamo pronti a fare la nostra parte”.
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