I dati dello studio Ref per Confesercenti: austerity c’è costata 130 miliardi di euro, con aumento Iva perderemmo lo 0,3% di crescita del Pil
La correzione dei conti pubblici è costata all’Italia, negli ultimi 10 anni, circa 130 miliardi di euro. E’ questo il conto dell’austerity, a quanto emerge dall’analisi condotta da REF Ricerche per Confesercenti, sommando i valori facciali di tutte le manovre dal 2007 ad oggi. Si ottiene una correzione, tra riduzione delle spese e aumento delle entrate, di ben 130 miliardi di euro, di cui circa la metà provenienti dalle sole maggiori entrate.
Complessivamente infatti, nel periodo esaminato, solo tre manovre su dieci hanno avuto carattere espansivo, con un saldo tra entrate e spese pubbliche a favore di queste ultime. Le manovre più recenti, a partire da quella relativa al 2013 e in misura crescente negli anni successivi, hanno segnato una inversione di tendenza nella politica di bilancio, che ha gradualmente abbandonato la sua impostazione restrittiva per assumere toni neutrali.
L’austerità è riuscita nell’intento di assicurare maggiore stabilità finanziaria al Paese. Senza le manovre adottate il nostro deficit pubblico, a parità di livello dei tassi d’interesse, sarebbe sopra il 6 per cento del Pil, e questo avrebbe determinato una situazione instabile sotto il profilo finanziario.
La stretta fiscale ha però avuto un alto impatto sull’economia reale: si può stimare che abbia sottratto negli anni scorsi alla crescita italiana circa 6 punti di Pil. Nonostante i 130 miliardi di euro di correzione, inoltre, nel 2016 ci ritroviamo esattamente con lo stesso livello del deficit pubblico del 2008 e con un debito pubblico che è aumentato di oltre 30 punti di Pil. Un risultato evidentemente fallimentare considerando i gravi costi economici e sociali che sono derivati dalla crisi.
Si comprende quindi la centralità del ruolo attivo della Bce, che ha permesso negli ultimi anni una significativa riduzione dello spread, aprendo a una diversa prospettiva della nostra politica di bilancio. Non a caso, è da circa due anni che la stretta fiscale in Italia si è interrotta.
Precedentemente, l’intenzione di interrompere la stretta fiscale ha dovuto scontrarsi con la necessità di rispettare i target sulla finanza pubblica imposti dalle autorità europee. Negli anni più recenti anche le stesse autorità europee hanno adottato un atteggiamento più flessibile.
È in questo contesto di generale allentamento dei vincoli, che la strategia adottata dall’Italia negli ultimi anni è stata quella di programmare obiettivi particolarmente ambiziosi, formalmente in linea con le richieste dei trattati dell’Unione, posticipandone regolarmente il raggiungimento. Così l’obiettivo del pareggio di bilancio, che in teoria avrebbe dovuto essere raggiunto nel 2013, di fatto non è stato ancora toccato, e al momento è programmato per il 2018. Condivisibile l’obiettivo del governo, la cui strategia punta a minimizzare la stretta della politica di bilancio.
Nell’ultimo Def gli obiettivi sono stati resi ulteriormente meno ambiziosi: il governo ha programmato di cancellare completamente le cosiddette “clausole di salvaguardia” (che nel 2017 avrebbero un valore di circa 20 miliardi) e di sostituirne solo una parte con misure alternative. L’entità e le caratteristiche delle misure alternative saranno però definite in dettaglio solo nella sessione di bilancio del prossimo autunno.
Le ipotesi di un aumento dell’iva
Nel corso degli ultimi anni il tema dell’aumento delle aliquote Iva è stato oggetto di particolare attenzione in molti paesi. Negli anni recenti l’Italia ha già aumentato due volte, a settembre 2011 e a ottobre 2013, l’aliquota dell’Iva ordinaria, portandola su livelli molto elevati nel confronto internazionale. Inoltre, sino a pochi mesi fa i programmi della finanza pubblica italiana erano strutturati intorno alla cosiddetta “clausola di salvaguardia” posta a garanzia del rispetto degli obiettivi di finanza pubblica, che prevedeva un incremento di entità eccezionale delle aliquote Iva, ordinaria e agevolata.
L’Italia presenta, tra le maggiori economie dell’eurozona, il livello più elevato di pressione fiscale sui consumi. Sommando la tassazione dei consumi nelle sue diverse forme, dai dati Ocse si ottiene per l’Italia un valore dell’11.7 per cento del Pil, che si confronta con l’11 per cento della Francia, fino al ben più modesto 9.5 per cento osservato in Spagna. Nel caso Italiano, le imposte sui consumi che garantiscono questi quasi 6 punti in più di Pil di gettito oltre all’Iva, sono principalmente le accise (sul petrolio e derivati, sui carburanti, sui gas incondensabili e il gas metano, sul consumo di energia elettrica e sul consumo della birra), pari a circa il 3 per cento del Pil, a cui si aggiungono i proventi derivanti dai monopoli, ovvero le imposte sui tabacchi e sui giochi (lotto, lotteria, ecc.), che assommano quasi l’1 per cento. La parte rimanente è costituita dalle imposte sull’utilizzo di specifici servizi (che nel caso italiano comprendono ad esempio le tasse comunali sul servizio rifiuti e sui servizi indivisibili, Tari e Tasi).
Data la situazione, l’aumento delle aliquote Iva agevolate previsto dalle clausole di salvaguardia avrebbe un impatto di rilievo, e non solo sui consumi. Secondo la simulazione condotta da Ref per Confesercenti – che impone un aumento di 3 punti all’aliquota agevolata al 10%, che passerebbe quindi al 13%, e di 1 punto sull’aliquota super-agevolata, passando dal 4 all’5%, il valore minimo che la Commissione Europea raccomanda ai paesi dell’Unione – gli effetti sulla crescita della nostra economia sarebbero significativi. In particolare, sulla base delle relazioni storiche si stima un effetto in termini di Pil pari al -0.3 per cento legato in prevalenza all’impatto della misura sui consumi delle famiglie, dove avrebbe un impatto negativo di -0.4 per cento nel 2017, -0.7 nel 2018 e -0.8 nel 2019. Dato l’effetto sull’economia, anche l’entità del miglioramento del deficit ne risulta ridimensionata rispetto al valore facciale della misura adottata.
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